lunedì 21 ottobre 2013

Confessioni di un Facilitatore del Caos

Perché
Credo che la mia maturità intellettuale sia a un buon punto. Ho perso elasticità e velocità di accesso ai dati, ma l’efficienza degli algoritmi inferenziali è molto migliore di un tempo. La mia intelligenza non è più quella di una volta, ma la uso in maniera più efficiente. Probabilmente sono all’apice della parabola e voglio lasciare qualche appunto da rileggere tra qualche anno per vedere l’effetto che fa. Poi, credo di aver cincischiato già troppo intorno al concetto di “male necessario” e vorrei coniugarlo a quello di “libero arbitrio” con un’esposizione ordinata per confrontarmi con i miei lettori, specialmente i più giovani, la cui attitudine è forzatamente diversa dalla mia.
Quello che segue è solo il mio pensiero, senza pretesa di enunciati di verità. Se avete un’opinione da esprimere sarete i benvenuti.

Come
Una ventina di anni fa mi era presa la fissa degli sport estremi. Una sorta di reazione alla mia incapacità patologica di provare paura. Cielo e mare sono elementi nei quali non mi sono mai trovato a mio agio e quindi ho volato con carrette tenute insieme con il nastro adesivo e regatato con una barca dalla straorza facile fatta apposta per scuffiare alla prima occasione.
Quando si naviga, specialmente a vela, si hanno a disposizione strumenti intrinsecamente efficienti, affinati da millenni di tecnica. Il mio Stag 24 era stato costruito sull’esperienza di centinaia di generazioni di marinai: era fatto per stare a galla e procedere verso la meta designata, magari con sacrificio di rotta, anche con il vento di prua.
Con quella barca io e altri tre scalmanati partecipammo al campionato invernale che si teneva ogni anno nelle acque antistanti la mia città nel periodo tra novembre e marzo.
La prima regata era una “notturna lunga”. Da Salerno ad Agropoli e ritorno con partenza a mezzanotte. Il tempo era cattivo con mare mosso, pioggia e raffiche di vento, ma le condizioni non erano tali da annullare la partenza che avvenne regolarmente.

Durante la navigazione, man mano che il mare saliva, il vento rifrescava e finivano le mani di terzaroli, incominciai a modificare la mia percezione deterministica dell’universo. Eravamo un ottimo equipaggio su una barca molto solida e ben costruita, ma avevo davanti a me l’evidenza che per quanto si possa allestire una causa non si ha una ragionevole certezza di sortire un determinato effetto. La barca, il mare, il vento, la notte e la paura, che fra sorpresa e emozione incominciavo a provare condizionando la mia percezione fenomenologica, costituivano un sistema clamorosamente complesso dentro il quale il principio di azione e reazione perdeva rapidamente di validità. La rotta non era più gestita dal mio timoniere, ma da un insieme di fattori incontrollabili ai quali eravamo tutti abbandonati con margini operativi ridottissimi. Fu quella la notte nella quale abbandonai la certezza, aprii la mia mente alla grandiosità della meccanica quantistica, compresi finalmente quale fosse la profondità filosofica dell’approccio olistico, persi l’albero e mi misi sulla strada che avrebbe fatto di me un facilitatore del caos.

Il Facilitatore del Caos
Ho raggiunto l’intima convinzione che la realtà sia largamente disconnessa dalle mie aspettative. Le variabili in gioco sono così tante che è impossibile stabilire relazioni dirette tra cause ed effetto. Il principio di indeterminazione di Heisenberg scolpisce nell’infinitamente piccolo una considerazione che l’uomo accorto fa rapidamente sua ed estende ad ogni sua considerazione. La realtà non ha bisogno del nostro permesso per esplicarsi. Accade e basta.
Ora, nei confronti questo fatto si possono avere due atteggiamenti: ci si può ostinare a pretendere che le cosa vadano come noi pensiamo che sia giusto che vadano o accettare l’inquietante prospettiva che ognuno di noi naviga nell’oceano degli eventi, aggrappato al suo piccolo naviglio, sperando di non disalberare e cercando di tenere una rotta quanto più possibile compatibile con i propri obiettivi.
Nella prima categoria ricadono gli idealisti. Quelli che credono nella prevalenza del Principio sulla realtà delle cose. Per costoro esiste una percettibile differenza tra cose giuste e sbagliate, tra Bene e Male. Chi appartiene a questa categoria accede a una topografia dell’universo dove i confini tra le differenti regioni morali sono sufficientemente definiti per collocare una valutazione su ogni fenomeno percepito. Una risposta esiste sempre, è solo questione di quanta energia si sia disposti a spendere per cercarla. Quindi, data una questione, la si può isolare deterministicamente e risolvere come un sotto problema del problema generale. E se non è sufficiente, la si può scomporre ulteriormente fino a ridurla ad una domanda secca alla quale sia possibile rispondere con logica binaria.
Gli idealisti hanno fatto tanto per la storia dell’Umanità. Hanno fondato religioni, ideologie (le religioni senza Dio) e scritto manuali che fornivano indicazioni precise in un tempo nel quale la mente degli uomini non era ancora pronta per accedere alla percezione quantistica delle cose dove i fenomeni vengono influenzati dall’osservatore e le singole occorrenze che definiscono un sistema emergono dall’inconsapevole interazione di elementi semplici.
Io mi sono dimesso da questa categoria mettendo definitivamente da parte le questioni di principio. Il determinismo è stato uno strumento formidabile, ma oggi penso che non sempre ad una domanda ci sia una risposta giusta e che non sia detto che ad una domanda ci sia almeno una risposta.
Il sistema geocentrico è la dimostrazione esemplare del meccanismo ideologico del determinismo. Si cerca una spiegazione che soddisfi la nostra aspettativa piuttosto che cercare quella giusta. Peccato che per millenni il Sole sia rimasto (relativamente) fermo nonostante le spiegazioni che gli astronomi si erano dati.
Io credo che non sia possibile “fare” le cose, perché le cose, in un universo olistico, emergono da sé. Il massimo che si può fare è renderle possibili. Cercare di orientare il disordine nel quale viviamo in modo da non escludere una possibilità che ci sta a cuore.
Quando un uomo studia, si prepara e cerca di risolvere un problema, non sta fornendo una soluzione, ma la sta agevolando. Se lo fa consapevolmente e serenamente è autorizzato a definirsi un facilitatore del caos.

Il Libero Arbitrio e il Male Necessario
Navigare nel mare degli eventi senza l’ausilio del sestante, della carta e della bussola che religione, morale ed ideologia mettono a disposizione è complesso. Tutti abbiamo il diritto di abbracciare una causa e sostenerla, ma non possiamo pretendere che la bontà di questa causa sia “di per sé evidente”. Non esistendo una carta costituzionale dell’universo, nessuno ha i diritto di avocarla quando difende le sue ragioni. Esistono e sono generalmente riconosciute, consuetudini di preservazione. La condanna universalmente condivisa per il razzismo, l’omicidio, la pedofilia, la guerra, la violenza in genere, ha una giustificazione di tutela individuale simile a quella che usano i boss criminali quando, nei loro meeting, lasciano le armi fuori dalla sala. Meno comprensibili sono le posizioni contrarie ai rapporti omosessuali tra adulti consenzienti, la discriminazione per sesso, età, etnia o religione, l’opposizione ai metodi scientifici quando questi violano supposti precetti morali o etici (che sono e rimanono sempre soggettivi).

Tutto ciò che è estraneo alle consuetudini di preservazione è questionabile, ma sempre secondo principi di logica. Per questo, se qualcuno ritiene che la 
sperimentazione scientifica sugli animali  sia inutile, non dovrebbe appellarsi a considerazioni morali indimostrabili e in piena contraddizione con altri costumi (“è una barbarie”, ma si mangiano le bistecche; salute e alimentazione sono entrambe esigenze indifferibili), ma sostenere la sua tesi con evidenze scientifiche. Nello stesso modo, chi aborre la violenza non può negare che in alcune contingenze essa si riveli necessaria per esercitare difesa, garantirsi approvvigionamento, assicurare integrità a sistemi sociali dove i nostri figli crescono e noi lavoriamo. 
La Svizzera è la Svizzera anche perché espelle gli immigrati clandestini e tiene le frontiere ben serrate indifferente ad ogni considerazione umanitaria. Si può e si deve sempre discutere sui metodi, perché soluzioni migliori e meno micidiali sono spesso disponibili, ma il merito rimane. Quando un poliziotto, nel corso di un conflitto a fuoco, uccide un rapinatore, si carica sulle spalle una responsabilità collettiva per un omicidio che, molto probabilmente, avrebbe preferito non compiere, ma che in quel momento ha esplicato operando in libero arbitrio un male necessario.

Parlo di “libero arbitrio” e non di “dovere” perché un facilitatore del caos non ha il diritto di appellarsi al “dovere”. Il “dovere” è uno strumento di deresponsabilizzazione. Diffidate di chi lo utilizza come giustificazione. Esiste sempre la possibilità di dire no affrontandone le conseguenze. La dichiarazione di Priebke per il quale non era possibile rifiutarsi si traduce in un semplicissimo: “fra un pericolo potenziale per la mia vita o per la mia carriera e la strage certa di 300 persone ho preferito operare la strage”. Questo non è “dovere”, è viltà.

Nel corso della mia vita ho più volte attraversato i confini dell’etica e della morale. Molte volte questo si è concretizzato nel rendermi autore di azioni che io per primo consideravo esecrabili, tutte disposte su quella sottilissima linea di confine che separa le consuetudini di preservazione dall’assunzione sulle proprie spalle di una responsabilità collettiva. E’ in quel momento che ho esercitato il mio libero arbitrio per compiere un male necessario. Quello che dice il mio amico F. in un articolo che non ha ancora completato e che, spero, possa essere influenzato da quanto scrivo, è vero: “La consapevolezza che un male possa essere necessario appartiene a quelle persone che un male sono disposte a provocarlo.”

Io faccio parte di quella categoria di persone che il male sono disposte a provocarlo. La cosa non mi inquieta, perché non ho la cartina che usa F. e, per quello che ho detto prima, non so definire quasi mai cosa sia bene o cosa sia male. Definizioni assolute di questa portata prevedono una divisione netta che si espande nel tempo. Io so solo quello che vorrei che fosse, quello che mi costa sforzo fare e quello che faccio volentieri. Quando faccio qualcosa pensando che mi aiuti a orientare il caos nella direzione che personalmente giudico migliore, esercito il mio libero arbitrio e, se mi pesa farla, metto in atto quello che classifico male necessario. L’ho fatto e sono ancora disposto a farlo. Senza richiami a dovere, morale e legge. Le mie scelte sono e rimangono una mia responsabilità individuale per la quale non chiedo e, soprattutto, non faccio sconti.

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